Hannah Arendt (Linden, 1906 – New York, 1975) filosofa e storica tedesca, analizzò la condizione umana nei sistemi totalitari sotto una lente nuova, unita all’importanza della capacità di giudizio. Nel 1940 fu costretta ad emigrare negli Stati Uniti perché ebrea. Ebbe importanti maestri tra cui Edmund
Husserl, Martin Heidegger e Karl Jaspers. Della sua vasta produzione ricordiamo Le origini del totalitarismo del 1951, Vita Activa del 1958 e La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme del 1963. La sua riflessione filosofica si incentra soprattutto su temi quali il potere politico, il totalitarismo del fascismo, del nazismo e del comunismo, il razzismo, l’Olocausto, il rapporto tra religione e politica e la conseguenza del male nella condizione umana.
Husserl, Martin Heidegger e Karl Jaspers. Della sua vasta produzione ricordiamo Le origini del totalitarismo del 1951, Vita Activa del 1958 e La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme del 1963. La sua riflessione filosofica si incentra soprattutto su temi quali il potere politico, il totalitarismo del fascismo, del nazismo e del comunismo, il razzismo, l’Olocausto, il rapporto tra religione e politica e la conseguenza del male nella condizione umana.
Ne Le origini del totalitarismo spiega come i regimi totalitari basino la loro politica sull’idea di conquistare il mondo; come la storia ci insegna, ogni ideologia assoluta ha sempre cercato di imporre regole e leggi sradicando con violenza usi e costumi di altri popoli.
La Arendt spiega: “I regimi totalitari basano realmente la loro
politica estera sul presupposto dell’effettivo conseguimento del fine
ultimo di conquista del mondo, e non lo perdono mai di vista per quanto
remoto possa apparire […] essi non considerano quindi alcun paese come
perpetuamente straniero, ma, anzi, ogni paese come un loro potenziale
territorio”. Di conseguenza le ideologie totalitarie non tengono mai conto della storia e delle tradizioni di un popolo.
Si procede all’annientamento della loro cultura e all’instaurazione
della politica del terrore per mezzo dei campi di concentramento nei
quali gli individui sono ridotti a entità superflue. Per la Arendt
esistono profonde analogie tra nazismo e stalinismo perché in entrambi i
sistemi, vengono negati i più elementari diritti civili.
In Vita Activa, emerge l’uomo come essere spontaneo capace di libere iniziative e azioni creative; le ideologie
totalitarie tendono invece a schiacciare la realizzazione della
condizione umana e la sua pluralità con ogni mezzo che annienta l’uomo
conducendolo nel vortice del determinismo, non solo con le atrocità
delle torture compiute dal nazismo e dal comunismo: “Il fatto che l’uomo
sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere
l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente
improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la
nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità.
Di questo qualcuno che è unico si può fondatamente dire che prima di lui
non c’era nessuno. Se l’azione come cominciamento corrisponde al fatto
della nascita, se questa è la realizzazione della condizione umana della
natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed
è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere come distinto e unico essere tra uguali”. Secondo la Arendt, ci sono tre aspetti fondamentali nella vita attiva degli uomini: il lavoro, la produzione e l’azione.
Se è possibile lavorare e produrre anche da soli, questo non è
possibile quando si vuole “agire”, perché l’azione è sempre in relazione
almeno ad un’altra persona ed in generale ad una pluralità di
individui. L’agire insieme costituisce il tratto distintivo
dell’uomo in ambito politico ed è proprio questo aspetto che i
totalitarismi tendono a negare.
La banalità del male pone in
evidenza l’importanza del pensiero critico contro le azioni malvagie.
Come inviata del settimanale New Yorker, la Arendt nel libro riporta il
processo contro il criminale nazista Otto Adolf Eichmann, tenutosi nel
1961 a Gerusalemme. Quando la Arendt si trovò di fronte al gerarca
nazista, fu impressionata e turbata dalla normalità di quest’uomo, quasi
facesse fatica ad associarlo ai
tremendi crimini che aveva commesso: “Ma il guaio del caso Eichmann era
che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né
perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali.
[…] commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di
accorgersi o di sentire che agisce male”. L’opera analizza la capacità
di distinguere tra giusto e sbagliato, tra bene e male, la facoltà di
giudizio critico e le conseguenti implicazioni morali. Per fortuna ci
sono coloro che non aderiscono ad una ideologia; sono quelli che
vogliono essere giudicati solo da loro stessi e sono capaci di farlo non
perché posseggono un miglior sistema di valori, ma perché essi si
domandano fino a che punto sarebbero capaci di vivere in pace con loro
stessi dopo aver commesso certe azioni. Quando i cittadini non
emettono alcun giudizio di fronte ad un Sistema che incide sul
cambiamento morale, si perde la facoltà del pensiero. Socrate,
che la Arendt sceglie come modello, invita ad avere la capacità di
pensare, la sola facoltà che ci consente di attivare il dubbio di fronte
al potere e alle sue regole. Le riflessioni della Arendt risultano
sempre attuali, anche in una dichiarata democrazia. Perdere la capacità
di pensare, di analizzare le ideologie o un qualsiasi sistema politico
in modo critico, significa essere banali.
Sante Biello
Polis SA Magazine
Sante Biello
Polis SA Magazine
Nessun commento:
Posta un commento