giovedì 14 aprile 2016

L’uomo al di sopra di Dio: Jung risponde a Giobbe

Padova – Nel corso dei secoli, molti studiosi hanno preso in esame il Libro di Giobbe della Bibbia perché rappresenta un punto imprescindibile da cui partire quando si affrontano tematiche intorno al male, come la giustizia retributiva, la sofferenza degli innocenti e la sofferenza come prova. Una riflessione originale è stata data senza dubbio da Carl Gustav Jung (Kesswil, 1875 – Küsnacht, 1961) con il famoso saggio Risposta a Giobbe, pubblicato nel 1952, suscitando notevole scalpore soprattutto tra i teologi. Jung si pose l’obiettivo di fornire un’interpretazione psicoanalitica del rapporto tra Yahwèh e Giobbe. Per lo psichiatra svizzero, nel Libro di Giobbe si verifica un evento fondamentale: Dio prende coscienza della superiorità morale di Giobbe e di conseguenza si farà uomo per mezzo del figlio Gesù Cristo, così da riscattare l’ingiustizia che aveva causato.

Ma chi era Giobbe? Era un uomo integro e retto, alieno dal male, nessuno era come lui sulla terra. Dio lo mise alla prova per vedere se restava fedele anche nella cattiva sorte. Improvvisamente perse tutti i suoi beni materiali, i suoi dieci figli vennero uccisi e il suo corpo si riempì di piaghe. Giobbe, nonostante tanta sofferenza resta fedele a Dio, ma non riesce a comprendere la legge divina che punisce gli innocenti e lascia vivere nel benessere gli empi. Al suo capezzale accorsero tre suoi amici: Elifaz, Bildad e Zafar. Tutti e tre tentarono di giustificare la cattiva sorte secondo un principio teologico della giustizia retributiva, secondo la quale la sofferenza di Giobbe è la conseguenza dei suoi peccati e Dio lo punisce. Il male fisico dunque è la conseguenza del male morale, Dio punisce gli uomini per i loro peccati. Ma alle considerazioni degli amici, Giobbe si oppone ricordando loro la sua buona condotta. Anche se gli amici tentano di trovare qualche peccato nella vita di Giobbe, è chiaro che la giustizia retributiva non è valida. Giobbe rappresenta il simbolo della sofferenza degli innocenti: “Perché vivono i malvagi, invecchiano, anzi sono potenti e gagliardi? La loro prole prospera insieme con essi, i loro rampolli crescono sotto i loro occhi. Le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro” (Gb 21, 7-9).
Il Dio del Vecchio Testamento era roso dall’ira e dalla gelosia; in lui erano presenti sentimenti contrapposti come un’infinita bontà ma nello stesso tempo una profonda crudeltà. Nella vicenda di Giobbe, Jung dice: “Bisogna rendersi conto che qui in un breve tratto di tempo sono stati perpetrati i più atroci misfatti: rapina, omicidio, lesioni personali premeditate, diniego di giustizia. E quale circostanza aggravante appare il fatto che Yahwèh non ha manifestato alcuno scrupolo, rimorso o simpatia, ma ha dato soltanto prova di crudeltà e della più assoluta mancanza di considerazione. Non si può accettare sino a questo punto la giustificazione dell’incoscienza, perché Yahwèh viola in maniera flagrante perlomeno tre delle leggi che egli stesso aveva dettato sul monte Sinai.”
Giobbe riconosce profonde contraddizioni in Dio ma non perde la fiducia; il suo silenzio e la sua accettazione, senza saperlo e senza volerlo, lo pongono al di sopra di Dio “sia intellettualmente che moralmente”. Giobbe sa che per sopravvivere deve rimanere sempre cosciente a causa della sua debolezza e della sua impotenza nei confronti di un Dio che è onnipotente: “L’essere umano ingiustamente tormentato era stato infatti, senza saperlo né volerlo, innalzato silenziosamente e progressivamente a un livello della conoscenza della divinità che Dio stesso non possedeva”, dice Jung.
Anche se Giobbe non aveva mai dubitato dell’onnipotenza di Dio, sperava nella sua giustizia, mentre invece viene elevato lui stesso al rango di giudice della divinità. Il fatto che Giobbe riesca a conoscere Dio, anche Dio è costretto a conoscere se stesso ed è qui che avviene il punto di rottura: “Non era possibile che la doppia natura di Yahwèh divenisse palese a tutto il mondo e restasse nascosta soltanto a Lui. Chi conosce Dio, agisce su di Lui. Il fallimento del tentativo di perdere Giobbe ha mutato Yahwèh”.
In tutto questo, sembra che Dio non si sia curato di valersi della sua onniscienza, quindi non aveva previsto il peccato originale di Adamo ed Eva e il dramma di Caino e Abele. Si compie così l’atto del cambiamento: “Ma questa volta non dev’essere il mondo a cambiare, è Dio che vuole mutare la sua stessa natura”. Dio quindi diventa uomo per mezzo del figlio Gesù Cristo che nascerà da una donna vergine e senza peccato, così da non poter essere tentata dal Diavolo. Questa volta sarà la Vergine Maria che schiaccerà con il piede la testa del serpente a differenza di Eva che cedette alle lusinghe di Lucifero.
Quindi, qual è il senso della seconda venuta nel mondo da parte di Dio dopo quella di Adamo? Jung dice: “Dio è sì, de facto, in tutto, ma nonostante ciò dev’essere mancato qualche cosa perché sia stato necessario inscenare, con tante precauzioni e con tanta cura, una, per così dire, seconda entrata nella creazione.”
Il rapporto tra Yahwèh e Giobbe analizzato da Jung nel suo libro è geniale, ed emergono importanti aspetti: il dramma e il mutamento di Dio, la grandezza dell’uomo, il ruolo di Satana e quello della Vergine Maria. Certo, i teologi non accolse favorevolmente Risposta a Giobbe. La tradizione cristiana, in modo particolare la teologia scolastica, ha sempre  presentato Dio come Summum Bonum mentre il male come privatio boni; Jung invece ci presenta un Dio nel quale sono presenti sia il bene che il male, e sembra voglia sottolineare soprattutto un aspetto: per diventare uomo o Dio bisogna passare necessariamente per la sofferenza! Questo è forse il messaggio più importante del suo libro. Il dolore ci rende uomini, uguali, fratelli.

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