martedì 18 ottobre 2016

Italia: il linguaggio (apparente) della politica

L’importanza della comunicazione era ben nota fin dall'antichità, e la maggior parte degli uomini di potere nel corso della storia hanno sempre avuto grandi capacità dialettiche per meglio dominare i popoli.
Forse non è un caso che, nella seconda metà del V secolo a.C. ad Atene si sviluppò la sofistica, una corrente filosofica che perfezionò le tecniche della dialettica per confutare, affermare, polemizzare e persuadere le persone. I sofisti ponevano al centro della riflessione l’uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica. Erano dei sapienti, che insegnavano dietro compenso, aspetto questo che portò a giudicare male questa corrente perché interessati al successo e ai soldi, più che alla verità. Misero in atto un sostanziale relativismo etico per cui veniva riconosciuto il valore delle norme solo in relazione alle usanze della città in cui si trovavano ad operare e si adeguavano pur di avere successo.
In realtà nel XIX secolo la sofistica è stata rivalutata come un periodo fondamentale della filosofia antica e non venne più vista come una corrente negativa; ma quanta sofistica, nell'accezione negativa del termine, è presente oggi nel linguaggio politico del nostro Paese?


Il linguaggio contemporaneo della classe dirigente nostrana (e a quanto pare ciò vale un po’ in generale) è fatto di tanta apparenza e poca sostanza, pur di raccogliere il maggior consenso possibile. Un problema, questo, che purtroppo non è nuovo, e per il quale pare siamo ancora lontani da una soluzione definitiva. Dal 1993 ad oggi, cioè dalla cosiddetta discesa in campo di Silvio Berlusconi, sin all'attuale Presidente del Consiglio Matteo Renzi – per guardare ad un periodo storico piuttosto recente tal da non forzare memoria e competenze dei più -, l’Italia è stata farcita da slogan e promesse elettorali mai realizzate: sul lavoro, sulla “ripresa”, sulle banche, sui migranti, sui diritti civili, ambiente, scuola, sanità, tassazione e via discorrendo…  Grazie anche al sapiente utilizzo dei mezzi d’informazione partigiani e/o main-stream, sono passati messaggi surreali, imbonitori, che hanno costruito nelle menti di ciascuno un modello di realtà funzionale ad una visione della società molto particolare… Innescando dinamiche di crescente insoddisfazione e scontro – pure fittizio – tra le parti in causa che si tradotto in un linguaggio politico sempre più violento. L’obiettivo è chiaro: creare tra l’opinione pubblica e la politica reale una coltre, uno specchietto per le allodole fatto di disinformazione, conflitti apparenti, lotta di classe addomesticata, etc…
In tal modo cause ed effetti – pur molteplici, di fatti, si sono sommati: la rappresentanza, ad esempio, è stata relegata a mera questione formale prima e, infine, neppure più la forma è stata rispettata….
Si è passati col tempo dal discorso argomentativo e quello assertivo. Come spiega bene l’antropologa Amalia Signorelli, il discorso argomentativo si svolge secondo il filo del ragionamento, esplicitando le premesse da cui parte, chiarendo i perché della scelta delle premesse e dei fatti che ne conseguono e concludendo con previsioni di risultati anch'esse razionalmente argomentate. È un discorso che non confonde la parte con il tutto, il singolare con il plurale; è un discorso basato su una corretta coniugazione dei verbi, sicché non confonde il presente con il desiderabile futuro; è un discorso che tiene conto del fatto che, quando si vuol cambiare qualcosa, bisogna intervenire anche sulle cause che hanno prodotto quella cosa… Il discorso assertivo invece è tutt'altra cosa: afferma, dichiara, definisce, prevede e prescrive, senza preoccuparsi di spiegare a chi ascolta né il perché, né il come, né il quando, né con quali mezzi e risorse. È un tipo di discorso che fa coincidere nome e cosa, affermazione e fatto. Spesso i politici di professione usano il linguaggio assertivo: è semplice da capire, diretto, immaginoso, tocca le corde profonde degli ascoltatori e consente con facilità di camuffare contraddizioni, di evitare rendicontazioni, in una parola di eludere i conti con la realtà.
Un chiaro esempio tra discorso argomentativo e assertivo lo abbiamo colto nel confronto sul referendum costituzionale tra Zagrebelsky e Renzi; da una parte il giurista affermava secondo principi logici di causa ed effetto che la nuova legge costituzionale creerà ulteriori complicazioni, dall'altra Renzi ripeteva secondo uno schema enfatico la validità della riforma. A prescindere dalla verità o falsità della discussione, a molti Renzi è sembrato più efficace non perché seguisse un metodo logico e rigoroso ma per una maggiore capacità nel comunicare. D'altronde ciascuno sa che una menzogna detta bene è più efficace di una verità detta male. Ed ecco allora tutti aggrappati ad una grammatica di Babele per cercare di capire tutto ed il contrario di tutto di una stessa lingua: l’italiano. Di fronte alla dialettica eristica della nostra classe dirigente – inclusi mass-media ed autorità in generale … -, ci sono due aspetti che dovremmo SEMPRE tener presente per difenderci:
1) sviluppare un maggior senso critico, cercando di approfondire e confrontare ogni argomento il più possibile;
2) diffidare di coloro che dalle promesse non fanno seguire le azioni.

Forse aveva ragione George Orwell quando disse “Il linguaggio politico è concepito in modo che le menzogne suonino sincere e l’omicidio rispettabile, e per dare una parvenza di solidità all'aria.”

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